“Le cose cambiano” (e questo a qualcuno non piace)

Ho iniziato a leggere “Le cose cambiano” (http://www.lecosecambiano.org/) stamattina, andando al lavoro, e il libro mi ha portato subito ad una riflessione.
Vi riporto un passaggio della testimonianza di Dan Savage, scrittore e attivista gay americano, che mi ha colpito particolarmente:

La società di solito offriva questo patto alle persone gay, lesbiche, bisessuali e transgender: possiamo torturarti fino a quando compirai diciotto anni. Fino a quel momento verrai tormentato e insultato a scuola, a casa e in chiesa. Dopo potrai fare quello che vuoi. Puoi dire a tutti che sei gay, puoi trasferirti altrove e, forse, se i danni che ti abbiamo fatto non sono troppo gravi, puoi riprenderti e crearti una vita tua. C’è una sola cosa che non puoi fare dopo: parlare ai ragazzi che stiamo ancora tormentando, quei ragazzi aggrediti emotivamente, fisicamente e spiritualmente nelle stesse città, scuole e comunità religiose da cui sei scappato. E, se ci provi, metteremo in dubbio le tue intenzioni, ti accuseremo di essere pedofilo, un pervertito, diremo che stai cercando di convincere i ragazzi ad adottare «lo stile di vita dei gay».”

Personalmente ho vissuto, come sarà successo a molt* di voi, il bullismo sulla mia pelle alle scuole superiori, in quanto “ragazzino” diverso da tutti gli altri, nella totale indifferenza ed omertà da parte di insegnanti e adulti.
Oggi so, sappiamo bene, che quella violenza esercitata col beneplacito delle istituzioni, noi che siamo sopravvissuti, ce le porteremo dentro per sempre.

Credo che la battaglia contro quelle forze che hanno bloccato i libretti dell’UNAR nelle scuole (per non parlare delle inquietanti “Sentinelle in piedi” che scendono in campo contro, si badi, al riconoscimento del nostro diritto a non subire odio e violenza) sia vitale per noi come movimento e comunità, e che debba vederci il più possibile uniti, perché di fatto questi bigotti vogliono impedirci di tendere una mano a quei ragazzi LGBT*, oggi adolescenti, che altro non sono che i nostri ragazzi, la nostra gente, l’arcobaleno di domani.

 

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Michel Foucault: tra mito e cultura

Sono venuta a contatto con l’elaborazione di Foucault per la prima volta preparando la mia tesi di laurea, che trattava il tema della transessualità come oggetto di discriminazione, nel 2007. Su indicazione della correlatrice della mia tesi, una docente di filosofia politica, ho richiamato il filosofo nell’analisi dei tre momenti che connotano l’esperienza transgenere dal punto di vista sociale: l’oppressione, la riaffermazione della dignità di una realtà marginalizzata e stigmatizzata, ed il riconoscimento.

Nel definire le cause dell’oppressione delle espressioni identitarie trans*, così come di quelle culture che non rientrano nella dicotomia maschile/femminile, ho richiamato quella visione della ragione scientifica moderna che F. definì “sguardo normalizzatore”, che ha portato alla concettualizzazione di alcuni gruppi come diversi, in contrapposizione alla rispettabilità di altri gruppi definiti soggetti neutri, messa in atto dalla cultura scientifica, estetica e morale dell’Ottocento e del primo Novecento.

Questa concettualizzazione ha fatto sì che, a partire dal XIX secolo, nelle società giudaiche, cristiane e islamiche, la naturale “variabilità di genere” dell’essere umano sia stata inquadrata come patologia.

Nell’analisi dei processi di riaffermazione della dignità finalizzata ad un riconoscimento sociale, ho fatto riferimento alla genesi di quello che F. chiama “discorso di rimando” da parte di omosessuali (e transessuali), analizzando come il poter “parlare di sè” abbia permesso alle persone transgender di fare “autocoscienza di gruppo”, scoprendo che “il personale è politico” e sovvertendo gli stereotipi ricevuti.

Questa riflessione è ha trovato molti elementi nell’analisi sei rapporti fra sesso e potere elaborata da F..

Il potere è dappertutto, non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove” ci dice F..  Un potere che esula dalla logica binaria che vede una contrapposizione fra dominanti e dominati, che si esercita attraverso percorsi reticolari, in una dinamica discorsiva chiamata “microfisica del potere“.

Nella prima parte della sua  “Storia della sessualità” , “La volontà di sapere“, F. analizza i rapporti fra sesso e potere partendo da una riflessione su come la sessualità sia diventata nei secoli oggetto di sapere, dalla genesi della volontà di sapere.

F. ci mette subito in guardia da quella che lui chiama l'”ipotesi repressiva”, secondo la quale la repressione di cui il sesso è stato oggetto sarebbe l’elemento centrale del rapporto fra sesso e potere, sottolineando come invece, a partire dal 1700, nella cultura occidentale ci sia stata una vera e propria fermentazione discorsiva, un’incitazione ai discorsi sulla sessualità.

Tutto ciò che ha che ha a che fare col sesso deve passare dalla macina senza fine della parola” ci dice F., secondo il quale la storia della sessualità moderna si forma già con la pastorale cristiana, a partire dalla confessione, definita come dispositivo per produrre discorsi sul sesso (è molto interessante come F. trovi delle analogie con la confessione nella psicoanalisi freudiana, arrivando a parlare di “scienza confessione“).

A partire poi dal 1700, l’incitazione a parlare di sesso viene dallo Stato e il sesso entra in una dimensione pubblica, “lo si scova e lo si obbliga ad un’esistenza discorsiva“.

Nel frattempo la medicina, la psichiatria (con la ricerca di un’eziologia delle malattie mentali), la biologia, la demografia  definiranno i nuovi contorni del concetto di “contronatura“, connotando un nuovo popolo di “perversi”: ragazze precoci, bambini troppo svegli, maniaci, zoofili, feticisti, omosessuali e transessuali.

E’ in questo momento che la sodomia smette di essere un comportamento dell’individuo: l’omosessuale diventa personaggio, con una sua fisiologia, anatomia e morfologia.

La meccanica del potere che dà la caccia a tutto questo universo disparato non pretende di sopprimerlo dandogli una realtà analitica, visibile e permanente: esso lo fa invece entrare nei corpi, insinuarsi dietro i comportamenti, ne fa un principio di classificazione e intelleggibilità. Le sessualità aberranti non vengono escluse, vengono specificate. Di tutto questo la medicalizzazione è l’effetto e lo strumento.

In questa cornice, l’inizio del 1800 vede una proliferazione dei discorsi su omosessualità, ermafroditismo e transessualità, che da un lato porta ad un aumento del controllo sociale su questi fenomeni, ma dall’altro permette la genesi di quel dircorso di rimando delle persone omosessuali e trans, che iniziando a parlare di sè, metteno in atto quella dinamica discorsiva che poi porterà alla rivendicazione della naturalità e legittimità delle condizioni di omosessuale, transgenere e persona intersessuata.

Con la mia tesi, assumendo come punto di partenza il fatto che identità e culture transgenere esistano da sempre, intendevo evidenziare quale ruolo abbiano avuto l’occidentalizzazione e la modernizzazione nel rendere una patologia psichiatrica quella che in precedenza era stata un opzione identitaria riconosciuta da culture anche millenarie,  per poi analizzare quella rivoluzione delle soggettività dalla quale scaturisce una rivoluzione culturale che porterà alla decostruzione del dogma binario maschile/femminile, e  devo dire che in questo Foucault mi è stato di grande aiuto.

Non sono una studiosa di filosofia, né un’esperta di Foucault, ma l’idea che mi sono fatta leggendo questo filosofo e facendo riferimento alla sua macchina analitica è che, anche a trent’anni dalla sua morte, la sua “boite à outils”, la scatola di attrezzi, come lui stesso amava definire le sue analisi, resti uno strumento importante per comprendere la nostra attualità, soprattutto in un’ottica LGBT*I.

Una macchina analitica, quella foucaultiana, utile non solo a scrivere tesi di laurea, ma anche a vivere la vita di tutti i giorni, in tempi in cui dobbiamo fronteggiare inquietanti “teorie riparative”, interlocutori che tentano di squalificare le nostre vite definendoci “contronatura”, o una preclusione al diritto all’autodeterminazione (penso alle persone T* e all’istanza di depsichiatrizzazione dei percorsi transgenere).


Identità di genere in Foucault

Abbiamo bisogno di un vero sesso?”

Foucault inizia con queste parole la sua prefazione alle memorie di Alexina Barbin, più nota come Herculine Barbin, passata alla storia come “pseudoermafrodito”.

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In realtà Alexina era una persona intersessuata, affetta da una malformazione ai genitali, alla quale alla nascita fu attribuito il genere femminile.

Più tardi, alla fine della pubertà, dopo un’indagine volta a determinarne il sesso condotta da un medico e da un prete, ad Alexina fu imposto per sentenza il genere maschile, e questo portò la ragazza a suicidarsi.

Il caso di Alexina fu successivamente studiato da Foucault, che scrisse una prefazione al suo memoriale, che ho trovato davvero interessante perchè il filosofo anticipa concetti che oggi troviamo nei vari manifesti per la libertà di genere, così come nelle istanze per la tutela e la promozione del diritto all’identità personale delle persone intersessuate.

Abbiamo bisogno di un vero sesso?

Secondo F., nel Medioevo le regole del diritto prevedevano l’esistenza di persone ermafrodite, ed esisteva una giurisprudenza abbondante che stabiliva che fosse prerogativa del padre quella di decidere il sesso del figlio dalle caratteristiche sessuali incerte.

Successivamente, alle soglie dell’età adulta, la persona poteva scegliere a quale genere appartenere, a condizione di mantenerlo per il resto della vita.

A partire dal 1700, le teorie biologiche sulla sessualità rifiutano l’idea di una “mescolanza fra i sessi”: il sesso deve essere uno, e bisogna determinarlo.

Scompare quindi la libera scelta: non è più l’individuo a decidere il genere d’elezione, ma l'”esperto”, che stabilisce una verità sul sesso.

Alexina aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza in un convento, in un contesto quindi esclusivamente femminile, dove aveva vissuto anche diversi amori.

Alexina non era permeata da quel formidabile desiderio di raggiungere l”altro sesso’ che conoscono coloro che si sentono traditi dalla propria anatomia e imprigionati in un’ingiusta identità. Credo che a lei piacesse stare in questo mondo ad un sesso solo, dove c’erano tutte le sue emozioni e tutti i suoi amori, essendo ‘altro’ senza dover essere l”altro sesso.'”.

Ricordando Mario Mieli (Milano, 21 maggio 1952 – Milano, 12 marzo 1983)

A 31 anni dalla sua tragica scomparsa, ricordiamo Mario Mieli, attivista e figura storica, considerato un fondatore del movimento LGBT* italiano.

L’anno scorso il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli ha pubblicato un libro, “Mario Mieli: 30 anni dopo”,  di Franco Buffoni.

Avendo avuto la fortuna di partecipare alla presentazione del libro presso l’associazione di cui faccio parte, il Circolo Harvey Milk di Milano, e l’onore di conoscere l’autore, non posso che consigliare caldamente la lettura di questa preziosa opera.

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L’arresto di Vladimir Luxuria a Sochi e la transfobia della comunità LGBT italiana

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Sono molto felice per la liberazione di Vladimir Luxuria, arrestata a Sochi, in Russia, per aver manifestato il suo dissenso alle leggi omofobiche di Putin sventolando una bandiera che riportava lo slogan: “Gay is right”.
Meno contenta per le tante dimostrazioni di transfobia che ho avuto modo di leggere qua e là nel web, persino in bacheche di persone LGBT*. Commenti del tipo: “Se l’è andata a cercare, ora non si lamenti.” non sono degni di una comunità che si definisce egualitaria e democratica.
Sarò cattiva e malpensante, ma sono convinta che quelle stesse persone avrebbero invece manifestato solidarietà per il gay ‘perbene’, in giacca e cravatta, o per l’intellettuale lesbica.
Sarebbe davvero ora di farla finita con questa gerarchia delle differenze nella quale le persone trans* occupano sempre l’ultimo posto.

Tutta la mia stima per questa donna e per la sua battaglia per la libertà. Forza Vladi! #luxurialibera

Pride 2014: nessuna manifestazione nazionale

Pare che per il mancato accordo fra le associazioni LGBT*, quest’anno non ci sarà un Pride nazionale, ma solo manifestazioni locali.

La notizia ha giustamente portato ad un acceso dibattito all’interno della nostra comunità.

E così, fra tanto parlare di Pride, ho dato uno sguardo al passato.

Ormai 12 anni fa, nel 2002, marciammo a Padova.
Dieci anni fa marciavamo invece per il Pride nazionale di Grosseto, del quale ho un ricordo meraviglioso. Da allora non ho mai smesso di rimpiangere la bella idea dei pride nazionali portati in provincia e alla loro grande portata simbolica e pioneristica.

Dovremmo ritentare, trovare il coraggio di mettere fine al monopolio sui Pride delle grandi città.

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Al Pride di Padova nel 2003

Al Pride di Grosseto nel 2004

Al Pride di Grosseto nel 2004