L’importanza del coaching inclusivo in azienda

Nell’ambito del Master in Diversity Management e Gender Equality di Fondazione Giacomo Brodolini, Paola Cutaia, business coach, ci ha coinvolti in diverse sessioni di coaching inclusivo.

Elementi chiave nella gestione di un’efficace sessione di coaching sono la leadership inclusiva e un patto d’aula che deve prevedere riservatezza, responsabilità, rispetto, collaborazione e interazione su un piano di parità.

Ma qual è lo scopo del coaching?

Obiettivo del coaching è aiutare il coachee a “passare da un comportamento A a un comportamento B” attraverso l’ascolto attivo, la sospensione del giudizio, le domande aperte, le risorse personali, il dichiarato e l’intuito.

Che cosa insegna concretamente il coaching inclusivo? Ci può davvero aiutare in azienda?

Certamente sì. Nel corso delle sessioni di coaching con Paola Cutaia io e le altre partecipanti al Master abbiamo imparato a gestire casi concreti che in azienda si presentano ogni giorno.

Facciamo un esempio:

Dirigi un gruppo di lavoro e qualcuno si lamenta con te del fatto che un tuo collaboratore che è appena diventato papà stia utilizzando la maggior parte dei giorni di congedo che l’azienda prevede per i neogenitori.

Per risolvere questo caso nel modo corretto io e gli altri corsisti abbiamo dovuto mettere in campo tutti gli strumenti che nel Master abbiamo acquisito:

  • abbiamo subito focalizzato l’attenzione sulle tante resistenze culturali (derivanti da un sistema culturale ancora sessista) che ancora oggi un papà che voglia prendere dei permessi per stare accanto ai suoi figli può incontrare in azienda e non solo;
  • abbiamo considerato anche il punto di vista del dipendente che porta una lamentela, ipotizzando che il lavoro non svolto dal collega neogenitore possa ricadere su di lui;
  • ci siamo chiesti: e se fosse la cultura organizzativa il vero problema? Come modificarla per far sì che le due risorse non vadano in conflitto?

Age diversity e reverse mentoring

Le persone in età avanzata possono avere dei vantaggi rispetto ai più giovani a livello di velocità dei processi mentali? Secondo Valentina Chizzola della Fondazione Franco De Marchi – che ci ha parlato di ageing nell’ambito del Master in Diversity Management e Gender Equality della Fondazione Brodolini – sì.

Ci sarebbero competenze – le cosidette competenze dell’età – che i più anziani sviluppano nel tempo, come la maggiore velocità nel prendere le decisioni. Infatti, in età matura, si hanno a disposizione più modelli cognitivi a cui attingere che permettono di saltare molti passaggi logici.

L’invecchiamento nel lavoro e il reverse mentoring

Il fenomeno dell’invecchiamento deve essere trattato come un processo e non come una condizione. Un buona pratica per arrivare a questo obiettivo è quella del reverse mentoring, che prevede che le diverse generazioni presenti in azienda (i Boomer nati dal 1946 al 1965, la Generazione X dei nati fra il 1966 e il 1980, i Millennial fra il 1981 e il 1995 e la I-Generation o Generazione delle Reti nata fra il 1996 e il 2015) interagiscano in specifiche sessioni e imparino l’una dall’altra. In questo modo le competenze digitali dei junior incontrano quelle predigitali dei senior. Il primo a usare il reverse mentoring è stato Jack Welch di General Electric.

Un futuro senza date di nascita nei curricula?

L’ageism – termine coniato nel 1969 dal gerontologo statunitense Robert Neil Butler – è il termine che indica la discriminazione rivolta ai senior nel mondo del lavoro.

La nuova frontiera sperimentata dagli uffici HR del Comune di Helsinki per contrastare le discriminazioni nel processo di recruitment è quella di un processo di selezione totalmente anonimo: niente età, sesso, foto, soltanto la storia professionale del candidato. Che, dati alla mano, pare aver portato risultati migliori tanto per i candidati quanto per le aziende. In questo modo si aggirano i bias cognitivi di recruiter e selezionatori e al colloquio arrivano i profili più qualificati.

Ageismo e abilismo in un’ottica intersezionale

“Se non moriremo all’improvviso, tutti saremo disabili un giorno”

Mara Pieri si occupa di studi sulle disabilità, queer e sulle sessualità. Nell’ambito del Master in Diversity Inclusion e Gender Equality della Fondazione Brodolini, ci ha spiegato come noi tutti siamo allo stesso tempo immersi in una rete sia di oppressioni che di privilegi.

Abilismo e ageismo ci riguardano tutt*

Il destino delle persone anziane e delle persone disabili tende ad essere collegato, perché l’invecchiamento è disabilizzante.

L’ageismo è un sistema di oppressione basato sull’età, che riguarda tutte le età, perché ogni età ha le sue aspettative socio-culturali. Esso può connotare l’esperienza tanto di persone anziane quanto di persone giovani.

L’abilismo è un sistema di oppressione basato sulla discriminazione delle persone non abili. L’abilità e la disabilità sono culturalmente e socialmente definite.

L’ideologia del benessere

Malattia, invecchiamento e disabilità sono accadimenti della vita sui quali possiamo avere un controllo per farli diventare “storie di successo”. Esiste un vero e proprio imperativo morale che ci dice che dobbiamo impegnarci a cancellare e limitare i danni dell’invecchiamento e della disabilità. E se non lo facciamo, incappiamo nella stigmatizzazione.

L’ideologia del benessere è alla base dell’industria del wellness. Addirittura esiste un ramo della gerontologia, il successful ageing, che si occupa di invecchiamento attivo e ci dice come invecchiare in buona salute, come partecipare appieno alla vita della collettività e sentirci più realizzati, e come essere più autonomi nel quotidiano e più impegnati nella società anche se siamo anziani, perché “a qualsiasi età è possibile svolgere un ruolo attivo e beneficiare di una migliore qualità di vita”. 

Un vocabolario per il fenomeno migratorio

Nell’ambito del Master in Diversity Management e Gender Equality della Fondazione Giacomo Brodolini, ho avuto modo di ascoltare Giulia Gori – esperta in migrazioni – e Monia Dardi della Fondazione Adecco per le Pari Opportunità.

Ho imparato moltissime cose che non sapevo. Ad esempio che i rifugiati, prima di poter essere considerati tali, sono dei richiedenti asilo.

La Convenzione di Ginevra stabilisce infatti i motivi di persecuzione che danno diritto alla definizione di rifugiato:

“Chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi. “

L’immaginario collettivo legato ai migranti e i luoghi comuni da sfatare

I rifugiati in Italia sono oggi 180 mila, lo 0,3% della popolazione. La maggior parte dei migranti arriva in Italia non per ragioni di lavoro, ma per il ricongiungimento con famigliari che già vivono qui. Il tasso di occupazione delle persone di origine straniera è più alto di quello delle persone di origine italiana, ma anche il tasso di disoccupazione lo è. Che cosa significa? Semplicemente che le persone di origine straniera spesso sono costrette ad adattarsi a qualsiasi tipo di lavoro, anche a costo della dignità o della rinuncia a un’equa retribuzione.

I dati ci dicono qualcosa anche sulla ricchezza che le persone di origine straniera producono e portano nel nostro paese, e cioè che il saldo fra le spese sostenute dal nostro Stato per queste persone e le entrate (ottenute fra pagamento dei permessi di soggiorno, contributi INPS e IRPEF) è attivo, e che le entrate sono considerevoli.

L’esternalizzazione delle frontiere

Diversamente da come il sensazionalismo di certa carta stampata potrebbe indurci a pensare, negli ultimi anni gli arrivi via mare sono drasticamente diminuiti a causa della esternalizzazione delle frontiere, che è in sostanza quell’insieme di accordi che l’Italia ha stipulato con i paesi stranieri di origine al fine di diminuire gli ingressi di migranti.

Un esempio di esternalizzazione delle frontiere è l’accordo con la Turchia – costato 6 miliardi – per bloccare i migranti lungo la rotta balcanica. Le terribili immagini che raffiguravano persone dagli abiti consunti e logori camminare scalze e in fila nella neve che hanno fatto il giro del mondo, ritraevano migranti lungo quella rotta costretti a tornare indietro.